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L'editoriale [numero 13]: "Capossela dalla musica alla letteratura nel mito della civiltà contadina"
Scritto da Marco Scolesi   
mercoledì 29 aprile 2015
Vinicio Capossela, che noi del Mellophonium abbiamo sempre apprezzato come cantautore e anche invitato a "Zazzarazzaz", è uno scrittore puro. La sua musica, o meglio i testi delle sue canzoni, ha sempre avuto un'impronta letteraria - con riferimenti a Pier Vittorio Tondelli, John Fante, Charles Bukowski, Sherwood Anderson, Hermann Melville, Omero, Venedikt Erofeev, Alfred Jarry, Boris Vian e Louis Ferdinand Celine - ma ora, dopo "Non si muore tutte le mattine" e "Tefteri", l'artista di Calitri (in Irpinia) propone l'opera della maturità, il romanzo "Il paese dei Coppoloni", omaggio alla civiltà contadina, al paese della famiglia, a suo padre Vito. Un'epopea famigliare, ricca di storie e personaggi, alla quale Vinicio ha lavorato per almeno 17 anni. Il romanzo della vita, che peraltro è candidato al Premio Strega, liquore che l'autore de "Il ballo di San Vito" omaggiò in "Con una rosa". “Da dove venite? A chi appartenete? Cosa andate cercando?”. Così si chiede al viandante-narratore nelle terre dei padri. Il viandante procede con il passo dell’iniziato, lo sguardo affilato, la memoria popolata di storie. E le storie gli vengono incontro nelle vesti di figure, ciascuna portatrice di destino, che hanno il compito di ispirati accompagnatori. Luoghi e personaggi suonano, con i loro “stortinomi”, immobili e mitici, immersi in un paesaggio umano e geografico che mescola il noto e l’ignoto. Scatozza “domatore di camion”, Mandarino “pascitore di uomini”, la Totara, Cazzariegghio, Pacchi Pacchi, Testadiuccello, Camoia, la Marescialla: ciascuno ragguaglia il viandante, ciascuno lo mette in guardia, ciascuno sembra custode di una verità che tanto più ci riguarda, quanto più è fuori dalla Storia. Il viandante deve misurarsi, insieme al lettore, con un patrimonio di saggezza che sembra aver abbandonato tutti quanti si muovono per sentieri e strade, sotto la luna, nella luce del meriggio, accompagnati dall’abbaiare dei cani. E poi ci sono la musica e i musicanti. La musica da sposalizio, da canto a sonetto, la musica per uccidere il porco, la musica da ballo per cadere “sponzati come baccalà”, la musica da serenata, il lamento funebre, la musica rurale, da resa dei conti. Vinicio Capossela, con il Carlo Levi di "Cristo si è fermato a Eboli" come riferimento, ha scritto un’opera memorabile in cui la realtà è visibile solo dietro il velo deformante di un senso grandioso, epico, dell’umana esistenza, di un passato che torna a popolare di misteri e splendori l’opacità del nostro caos. “Il tempo non si è mai sposato, per questo fa quello che vuole”, dice Vinicio. Il tempo, ma quale tempo? Quello del sacro? Quello profano, quello mondano? Quello immobile del mito, o quello che divora ogni cosa? "Sono molti i tempi che attraversano - scrive Vinicio sul suo sito -, e che si sono anche stratificati nella scrittura di questo libro. In copertina c’è un quadro di Rocco Briuolo, nel quadro c’è questo grande orologio, che i paesani dell’Eco chiamano la Relogia. La Relogia ha le lancette ferme alle otto meno venti. L’ora in cui finì un mondo, quello della civiltà contadina, che morì il 23 novembre 1980, col tremamento della terra. A me pare molto indicativo che quell’orologio ora segni un tempo fermo. E’ proprio in quel tempo fermo che ho sguazzato in tutte queste pagine. Nel tentativo di portare la menzogna della realtà, alla verità dell’immaginazione. Mi sono anche sentito in colpa, come un ammutinato a rimanermene così, al riparo di quelle lancette ferme. A non sposarsi con l’attualità, che è una moglie del tipo delle marescialle, delle donne petrose a cui questi uomini hanno consegnato le chiavi del recinto loro. E’ stato un sogno ripararsi a quelle lancette, l’ho fatto durare a lungo, diciassette anni, spero possa proteggermi ancora, anche ora che gli si è data una fine. I canitrani, paesani dell’Eco non mettono le vocali alla fine delle parole, forse per quello, perché non amano la fine. Vituccio il conserviere, riutilizza e incanala tutto in un eterno ritorno, in un moto perpetuo, forse perché anche lui non ama la fine. Oggi sto dando una fine. Perché una vita cominci occorre che un’altra muoia, così la sposa porta il lutto della ragazza, il ragazzo porta il lutto del bambino e il vecchio porta il lutto dell’uomo. Però mi sento sgravato. Ho messo al riparo tutto quello che andava salvato. Un certo vento, una certa luna, una certa licantropia. Un’aria ampia che viene dal 1998, quando ho cominciato a scriverlo, quando ho ricominciato ad aggirarmi per le contrade dell’Occhino, con i baffi aguzzi oltre lo sterpo. Per dividere con chi amavo un immaginario. E così ho continuato a fare. E’ possibile che si perda nella disattenzione, ma l’osso c’è, è un osso di carta, caduco certo, al capriccio del pubblico e dell’editore. Il libro stampato temo non mi apparterrà, ma questi fogli sì, li andrò a bruciare sulla fonte del Guarramone, in sacrificio al Guarramonio, il dio del disordine e del baccano, che si fa a pezzi per potere rinascere. La vita ci è passata dentro, in forma di sogno, quella che non sporca con il suo ingombro. Ha riscaldato il ferro, ha fatto passare la notte, come il vino di Compavincenzo, come le parole di Armando Testadiuccello, come la mole di Camoia, come tutta la grande epica di chi è venuto prima ed ora vive sulle bocche degli altri, come gli spettri e le creature della cupa, che si fanno vedere da uno solo alla volta per non essere credute". Un libro epico, dentro il mito, che ci ricorda che senza radici e senza storia non esistiamo. Vinicio lo sa e per questo, appena può, si rifugia sull'appennino. Così è nato "Il paese dei Coppoloni" che ora risplende come un gioiello grezzo, "materia indigesta per palati fini".

 
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