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L'editoriale [numero 57]: "Effetti stroboscopici del destino, un sabato al night con Sergio Caputo"
Scritto da Marco Scolesi   
giovedì 06 agosto 2020
L'altra sera mi sono ritrovato ad ascoltare, o meglio a riascoltare per l'ennesima volta, "Un sabato italiano" di Sergio Caputo, che personalmente considero il miglior esempio di canzone jazzata all'italiana. Per tanti anni, soprattutto ai tempi delle nottate alla Cave di Napo, è stata la mia "colonna sonora", che ho condiviso con Pagot, il Drugo e molti altri "irregolari" avventori. Erano gli "effetti stroboscopici del destino". Il desiderio di tornare su queste "Storie di whisky andati", altra perla di Caputo, mi è arrivato dopo aver annunciato sul sito, con la complicità del direttore artistico Freddy Colt, la nuova edizione di Zazzarazzaz, ovvero il Festival della Canzone Jazzata, che sarà una delle poche rassegne dell'estate sanremese a causa del Covid-19 (7, 17 e 21 agosto). Caputo, infatti, è stato ospite della manifestazione per due volte, la prima in piazza San Siro (concerto memorabile), la seconda a Villa Ormond. Dicevo di "Un sabato italiano". Il disco uscì nel 1983, in una Italia in piena "sbornia di ottimismo" e reduce dal trionfo ai Mondiali di Calcio del 1982 in Spagna. Caputo, all'epoca 29enne, e cantautore alle prime armi ma già strutturato, era un pubblicitario. Ottenne il primo vero contratto discografico dopo alcuni anni di gavetta. Il suo stile, però, si impose subito grazie alla sua originalità, tanto da essere considerato il creatore, e a ragione, di una nuova via dei cantautori, tutt'altro che conservatrice, detta dei "pentiti del rock" (già avviata all'estero e mai compresa dal Club Tenco, che Caputo non lo ha mai invitato). Lo swing la fa da padrone nei dieci pezzi, in generale l'atmosfera che si respira è quella alcolica e fumosa dei locali notturni, sottobosco della vita mondana di Roma, città dell'artista. L'io narrante di questi brani sembra essere proprio un cantante di night club, dedito dunque suo malgrado alla vita notturna e a un tenore sregolato ("Ho i nervi un po' in disordine e il fegato nei guai"), foriero di alterne fortune, per questo capace di sviluppare un punto di vista atipico e meno illusorio del cittadino comune, dal quale tuttavia non vuole prendere le distanze, forse perché il suo lavoro è frutto di necessità e non di vocazione. La copertina ritrae Sergio Caputo davanti a un bar che si trovava in piazza Cavour a Roma, dove ora c'è la multisala Adriano, e che prima era più semplicemente il Cinema Adriano (già teatro) con annesso il bar. La maglietta indossata da Caputo, sotto la camicia blu, ritrae un famoso poster dell'artista Guy Peellaert che, imitando l'articolo di un giornale, recita "Frankie Goes to Hollywood", esattamente la stessa fonte di ispirazione per l'omonimo gruppo inglese, che poi divenne famoso di lì a poco. Sul retro è indicata una serie di cocktail o bevande, abbinati con ciascuna canzone, con relative ricette, i cui nomi sono talvolta inclusi anche nel testo stesso. Non mancano anche alcune citazioni di artisti o brani amati da Caputo, da Bessie Smith a Yves Montand, da Fred Astaire a "Jumpin jive" di Cab Calloway, fino al Cha Cha Cha. La prima canzone inizialmente è intitolata "Citrosodina" ma, dopo qualche mese, Caputo ricevette una telefonata dall'industria farmaceutica che produceva il digestivo, che lo invitò a dire "è un medicinale, leggere attentamente le avvertenze e le modalità d'uso". Fu così che il titolo fu cambiato in "Bimba se sapessi" e furono reincise le prime parole del brano, cambiate in "idrofobina vegetale" (che non esiste in natura) al posto di "citrosodina granulare", modificando anche le note di copertina relative alle bevande. Oggi le prime copie dell'album con il titolo originale - e la relativa spiegazione su come assumerla - sono rarissime e particolarmente ricercate dai collezionisti, con quotazioni che raggiungono diverse centinaia di euro. Quanto alla canzone, essa racchiude i tratti salienti del protagonista "viveur". "Guarda che mestiere che mi tocca a fare, io con questa faccia e il mio passato da dimenticare". Le successive canzoni presentano altri avventori notturni: in "Io e Rino" Caputo racconta delle rocambolesche e surreali avventure in giro per la città con il suo amico Riccardo Rinetti (detto Rino, che è anche produttore del disco insieme a Kiko Fusco). "Io e Rino in evidente stato confusionale", "grandi imprese e amori fallimentari", "giovani marmotte dell'alienazione". "Mettimi giù" gioca sulle varie accezioni del titolo stesso. Caputo racconta che l'idea gli sarebbe venuta guardando in televisione, senza audio, la celebre scena di King Kong con in mano Ann. Così ha annotato i molteplici sensi in cui poteva essere intesa l'espressione. "Mettimi giù due righe, fammi il quadro della situazione", "Mettimi giù gli accordi, sono indietro di una canzone", "Mettimi giù uno schizzo di come è fatto il tuo Paradiso", "La febbre dell'oro rende acida la città", "Chiudi un po' la finestra che la luce di un nuovo giorno mi fa sempre paura". "E le bionde sono tinte" mette in guardia dalle facili illusioni, come molte avventrici dei locali che sono bionde e conturbanti solo all'apparenza. "Sono senza sigarette, il pianista non fuma", "il futuro mi aspetta con le cosce di fuori", "il mio alibi è altrove", "sono pronto alla fuga ma nessuno mi insegue", "ho mangiato la foglia ma non l'ho ancora digerita", "la mia birra è tutta schiuma", "ho venduto i miei ricordi al museo degli orrori", "la vita è come un party d'alta moda che ti vende all'orecchio ogni sorta di volgarità". "Cimici e bromuro" è una parentesi che rimanda al periodo della leva, e ai giorni trascorsi nella "Neuro militare", da cui alla fine uscirà con il congedo illimitato in base all'articolo 28 ("La nevrastenia costituzionale e l'isterismo con evidente anomalia del carattere"). "Occhi sempre pronti alla deriva", "sbarre alle finestre", "nel cortile non ci voglio andare". Il lato B, come si diceva una volta, si apre con la famosa title-track ambientata "nella Roma felliniana", in cui "le stelle sono accese", la fa da padrone "la musica di ieri", le donne degli amici sono "abissi imperscrutabili", e "il peggio sembra essere passato". Epico il passaggio "mi dici vai dal medico, ma che ci vado a fare, non voglio mica smettere di bere e di fumare". Qui Caputo critica in modo elegante anche il Festival di Sanremo ("la radio mi pugnala con il Festival dei fiori"). "Equilibristi in bilico sul fine settimana", "il whisky mi ritorna su, diventa letterario", "mi rende tollerabile perfino la gastrite". "Mercy bocù", serenata del single appena abbandonato, fu depositata con la grafia sbagliata (che in francese sarebbe "merci beaucoup"), perché Caputo pensava che fosse più facile che passasse per le radio. "Non vederti più, farci una risata su, non vederti più, già dimenticata pure tu", "l'ottimismo ricomincia a pilotarmi", "la mia stella da spettacolo lassù", "un'orchestra di gatti sta provando l'ouverture". Anche "Week-end" pone l'accento sull'uomo senza compagnia in cui la donna amata è "aggrappata all'imponderabile" ("Niente birra in frigidaire, l'ennesimo caffè", "donne non ce n'è, mangio un sandwich del '43"), e sembra fare da introduzione alla splendida "Night" ("a prescindere dai fatti penso a te", "tiro a stupirti ma non mi riesce più", "nell'epica del night si diventa didascalici", "ho di nuovo fatto il pieno, non so se capirai"), dove tutti gli elementi di una certa vita notturna convergono in questo microcosmo, in cui è anche ambientata la conclusiva e confidenziale "Spicchio di luna". La dedica alla luna rispecchia l'animo del cantante notturno e si confonde con i tratti di una donna ("piccoli sogni in abito blu", "non navigo più", "cantami o diva di quello che vuoi"). Dal ritornello Caputo trarrà spunto per intitolare il suo primo live nel 1987. Dire "Ne approfitto per fare un po' di musica", come se fosse una scelta estemporanea, nasconde la necessità di doverlo fare per amore o per forza. Personalmente ne approfitto per riascoltare ancora Sergio Caputo.

Ps: un altro protagonista di Zazzarazzaz è stato Vinicio Capossela, che proprio in questi giorni sta girando l'Italia con "Pandemonium", un concerto narrativo di canzoni messe a nudo, scelte liberamente da un repertorio che quest’anno tocca il traguardo dei trent’anni dalla data di pubblicazione del primo disco “All’una e trentacinque circa” (altro album decisivo nella sviluppo della canzone jazzata moderna). Pandemonium da Pan, tutto, e Demonio, tutto demonio, in opposizione a Pan Theos, tutto Dio. Dunque un concertato per tutti i demoni. Sul palco, insieme a Vinicio Capossela al pianoforte e al “rumorista intraterrestre” Vincenzo Vasi, una serie di strumenti musicali che insieme evocano il Pandemonium, mitologico e gigantesco strumento di metallo dal tono grave, che scava negli inferi, in quel sottosuolo che è anche sede della memoria. Pandemonium è anche il nome della rubrica quotidiana tenuta da Capossela durante la quarantena, una sorta di almanacco del giorno, che indagava le canzoni e le storie che ci stavano dietro mettendole in connessione con le storie di un’attualità apparentemente immobile, ma in continuo cambiamento. Durante la serata ci saranno dunque anche momenti dedicati all’intimità del colloquio, così come è avvenuto nella distanza: una narrazione che svela le storie e gli scheletri negli armadi delle canzoni. “Il demone a cui mi riferisco in questo Pandemoium è il Dáimon dei greci - scrive Vinicio nelle note -, l’essenza dell’anima imprigionata dal corpo che è il tramite tra umano e divino. Il destino legato all’indole, e quindi al carattere. Pan Daimon, tutti i demoni che fanno la complessità della nostra natura, tutte le stanze di cui è composto il bordello del nostro cuore. Pan e Daimon, tutti insieme. Il Pandemonium è la somma delle nature nelle loro contraddizioni. Nature che generano cacofonia, il pan panico, la confusione del tutto quanto, l’entropia incessante che ci fa continuamente procedere e separare. Tutti i Dáimon, come in un vaso di pandora liberati nell’isolamento e nell’insicurezza che ci ha colti nella pandemia. Nuove e antiche pestilenze. Ma allo stesso tempo il Dáimon è l’angelo, l’entità che fa da ponte col divino. Perché un po’ di divino nell’uomo c’è, pure se impastato col fango e il Dáimon lo rimesta e solleva".
 
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