Ormai raramente e solo in determinate occasioni scrivo un editoriale, poiché mi sembra che se ne abusi e quasi tutti gli editorialisti (e non solo, pensiamo all'abuso dei social network e degli smartphone) sono convinti, in un atto narcisistico e di maniacale protagonismo, di avere la verità in mano. Insomma, tutti sembrano avere un'opinione netta su ogni argomento. E' anche affascinante, e probabilmente necessario (almeno per chi scrive queste righe), "non esserci" (sottrarsi), che forse ha maggiore significato e pienezza, e offre la possibilità, con lentezza e tempi dilatati, di aprirsi alla consapevolezza di sé, proprio in tempi storici dove tutto è rapido, produttivo, effimero (con certezze e sicurezze ostentate che poi si mostrano come facili consolazioni) e l'unico verbo sempre essere quello di apparire o di accumulare beni materiali. Puntando all'essenzialità si possono aprire le moltitudini che sono contenute in noi, esseri umani imperfetti e fragili, pieni di sfumature e anche contraddizioni. In tal senso rivendico il diritto alla complessità che paradossalmente, se coltivato, più portare alla leggerezza, come la intendeva Calvino nelle Lezioni Americane, ovvero uno spazio mentale da raggiungere attraverso il pensiero e l'analisi intensa degli accadimenti della vita. Scriveva Calvino: "L’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite". In sintesi darei cinque definizioni che personalmente ritengo prioritarie: anarchia, spiritualità laica (alla Thoureau che credeva nell'immanenza e nel rapporto profondo con la natura), autodeterminazione (unita al dialogo interiore), attenzione anche alle cose minime (uscita dalle convenzioni), resistenza bohémienne (soprattutto culturale e anticonformista).
Farò, però, delle eccezioni. E allora in questo editoriale torno a scrivere di Keith Jarrett, al quale mi lega una serie di memorabili concerti (credo almeno una quindicina con il suo trio) alla Pinede di Jazz a Juan (rassegna che ormai, per quanto mi riguarda, ha perso il suo fascino, come il Nice Jazz Festival, che preferivo quando si svolgeva a Cimiez). Il pianista americano, che da alcuni anni non si esibisce più per motivi di salute, quest'anno festeggia 80 anni e il suo leggendario Koln Concert ne raggiunge 50. Inoltre, sempre sul Koln Concert, è uscito un film.
Alla 75a edizione della Berlinale, fuori concorso, ha fatto il suo debutto mondiale "Koln 75", film di Ido Fluk. Un'opera che riporta sul grande schermo una delle storie più incredibili della musica jazz: la genesi del Koln Concert, frutto di una serata che sembrava destinata al fallimento. Ma al centro della narrazione non c'è solo la figura di Jarrett, bensì quella di Vera Brandes, la giovanissima promoter che ha reso possibile quell'evento epocale. Vera Brandes è una ragazza ribelle con una passione per il jazz. Cresciuta in un ambiente conservatore, decide di sfidare il destino e di organizzare un concerto di Keith Jarrett all'Opernhaus di Colonia nel gennaio del 1975. Nonostante le innumerevoli difficoltà - dalle resistenze familiari alla mancanza di fondi, fino alla scoperta dell'ultimo minuto che il pianoforte fornito non era quello concordato - Vera riesce a trasformare l'imprevisto in magia. Il risultato? Un concerto indimenticabile. "Koln 75" non è semplicemente un film sulla musica, ma un inno alla perseveranza e alla passione. La figura di Vera Brandes emerge come un'eroina moderna, una giovane donna che sfida le convenzioni per seguire il proprio sogno. Il film è un tributo alla forza di volontà, alla magia dell'improvvisazione e al potere trasformativo della musica.
Koln Concert uscì per l'etichetta Ecm. Si tratta di un'improvvisazione solista che scorre con calore umano. Il concerto a Colonia faceva parte del suo tour europeo solista iniziato nel 1973. Precedentemente, Jarrett aveva suonato in formazioni di tre o quattro elementi, poi si era aggregato al gruppo di Miles Davis. Per richiesta di quest'ultimo aveva abbandonato il piano acustico per passare al piano e l'organo elettrici, cosa che non gli piaceva. Il tour da solista fu quindi un ritorno alla sua vena artistica più naturale.
Giunto al teatro poche ore prima del concerto per provare il piano, Jarrett constatò che non vi era lo strumento pattuito, un Bosendorfer 290 Imperial, bensì un altro pianoforte, della stessa fabbrica, ma molto più piccolo. Peraltro lo strumento, usato dal coro del teatro, aveva un pedale rotto e non era accordato correttamente. Jarrett, pertanto, andò a cena e disse all'organizzatrice dell'evento che, se non fosse riuscita a rimediare sostituendo il pianoforte con quello pattuito, non avrebbe suonato. L'organizzatrice riuscì unicamente a sistemare l'accordatura dello strumento, ma il pianista non fu soddisfatto. Solo a causa dell'insistenza della stessa, decise di effettuare lo stesso il concerto.
La registrazione del concerto è divisa in tre parti, che durano rispettivamente 26, 33 e 7 minuti. Originariamente il disco fu distribuito come lp, perciò la seconda parte fu divisa in ulteriori due parti, chiamate "II a" e "II b". La terza parte, chiamata "II c", è l'encore eseguito alla fine del concerto. Un importante aspetto di questo album è la capacità di Jarrett di eseguire un gran numero di improvvisazioni su una vamp (equivalente jazzistico dell'ostinato) di uno o due accordi per periodi piuttosto prolungati di tempo. Ad esempio, nella parte I, Jarrett esegue ben 12 minuti di improvvisazione utilizzando praticamente due soli accordi, il la minore settima e il sol maggiore. A volte lo stile è calmo, a volte affine al blues, a volte vicino al gospel e alla musica classica. Per gli ultimi sei minuti della parte I inoltre rimane su un tema sull'accordo di la maggiore. Nella parte IIA, gli ultimi otto minuti si sviluppano sul re maggiore, mentre nella parte IIB i primi sei minuti sono un'improvvisazione sull'accordo di fa diesis minore.
Fin dall'uscita dell'album, furono pressanti le richieste su Jarrett di pubblicare una trascrizione della musica. Jarrett si rifiutò di soddisfare la richiesta e disse: "Il concerto è completamente improvvisato e deve andarsene così come è venuto", quasi un Mandala, simbolo dell'impermanenza. Il Mandala è un disegno o schema geometrico, spesso circolare, che rappresenta il cosmo e, in molte tradizioni spirituali (ad esempio nel Buddhismo), simboleggia l'universo e l'unità interiore. I Mandala sono usati come strumento per la meditazione, la concentrazione e la ricerca di equilibrio interiore, quello che certamente si avverte quando si ascolta la musica di Keith Jarrett, adepto del mistico e filosofo armeno Gurdjieff e lettore del poeta persiano Rumi.
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