E' uscito un nuovo libro di Piji, "S'ì fosse whisky", ma prima di parlarne mi perdonerete una premessa, comunque funzionale per entrare nel suo mondo, nelle sue atmosfere. Conosco Piji, romano, all'Anagrafe Pierluigi Siciliani, da molti anni. Ci siamo frequentati in varie occasioni: al Premio Tenco, al Festival della Canzone Jazzata Zazzarazzaz, alle iniziative organizzate dal Centro Studi Musicali Stan Kenton e dal Sultanato dello Swing, complice il comune amico Freddy Colt. Posso dire che siamo diventati amici, anche grazie a lunghe notti passate a discutere delle nostre passioni musicali, soprattutto il jazz applicato alle canzoni, ovvero di Sergio Caputo e Vinicio Capossela. Conservo gelosamente una dedica di Piji, scritta ai tavoli del Dopo Tenco, a notte fonda, sul suo libro "La canzone jazzata", uscito per Zona. Poi lui partì per Roma, con il treno delle 6.50. Io la lessi a casa, il giorno dopo, e non ne parlammo più.
Più che una dedica la considero una confessione: in sostanza Piji, che più volte è stato accostato a Vinicio, in realtà si considera un Caputiano-Caposseliano, e in quel volume ha tentato di "nascondere" ancora una volta il richiamo del buon Vinicio dedicandogli meno pagine. Ora, detto questo, io e Piji non ci vediamo da alcuni anni e da quella dedica, in cui lui mi definiva un Caposseliano convinto, è passato molto tempo. Non so come la pensa lui oggi, ma per me la "tenzone" tra Vinicio e Caputo è risolta, almeno parzialmente, con un "armistizio" equo. Due artisti imprescindibili, ai quali aggiungo Enzo Jannacci, il "genio" e Paolo Conte, il "maestro".
Perché questo aneddoto all'apparenza fuori tema rispetto al nuovo libro di Piji? Perché Piji, nonostante le influenze mai negate (qui aggiunge anche Gaber, e fa benissimo), ha saputo trovare una sua via, un suo equilibrio, una sintesi, che emerge anche nella sua raccolta di poesie "allo specchio", o meglio soliloqui, "S’i’ fosse whisky", che nel titolo si diverte a citare Cecco Angiolieri, uscita nella nuova collana di pop-poesie "Improvvisazioni" di Morellini Editore, diretta da Elena Mearini in collaborazione con Marco Saya, che lo hanno convinto a tirare fuori questi inediti che da tempo sostavano su uno scaffale della sua libreria.
Definire Piji con una sola parola non è semplice, anzi impossibile - cantautore con diverse incisioni alle spalle e live, poeta, operatore culturale, saggista, conduttore radiofonico -, quel che riesce più semplice è affermare che, a prescindere dalla modalità espressiva, Piji riesce sempre a trovare la sua voce, il suo tono, il suo stile, senza mai rinunciare all'ironia, e all'autoironia, tratto distintivo e sempre molto presente.
L'ho ritrovato intatto in queste poesie, tratte da quaderni scritti "Di getto" (la poesia che apre la raccolta ne è un "manifesto" programmatico), che si leggono d'un fiato, piacevoli e scorrevoli, altre più dolenti, alcune brevissime come l'omaggio a Gino Strada. Una selezione "ubriaca" e notturna, semilavorata, dove sono state toccate solo le virgole (anche se per uno meticoloso come Piji sembra un paradosso). Scritti all'apparenza "disordinati", appunto "Di getto", rimasti su carta senza essere trasformati in canzone, ma lasciati nella loro forma originaria di pagine poetiche o, più precisamente, di come le chiama lui stesso nel sottotitolo “popsìe, jazztacci e canzoni senza musica”. Anche se la musica è presente ovunque, si sente eccome. Una sorta di linguaggio jazzistico fatto di sole parole, dove trovano posto pensieri esistenziali, politica e amore. Forse, caro Piji, abbiamo lasciato "riposare" i nostri eroi "ingombranti" o forse ci siamo solo illusi, ancora un'altra volta. "Ai postumi l'ardua sentenza".
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