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Recensendo [cd]: "Live from the prison nation" di Alonzo Demetrius
Scritto da Adriano Ghirardo   
venerd́ 12 febbraio 2021
Tra i tanti danni causati dal mandato presidenziale di Donald Trump quello maggiore è stato lo sdoganamento del suprematismo bianco che, seppur sempre presente nella storia statunitense, ha avuto maggior facilità di esprimersi e influire sulla gestione dell'ordine pubblico. Se una parte consistente del paese ha reagito col movimento “Black lives matter” i musicisti neri si sono sentiti in dovere di esprimere, anche artisticamente, la loro protesta contro lo stato delle cose. Alonzo Demetrius, giovane trombettista del New Jersey, debutta come leader con questo profondo atto di accusa alla “nazione prigione” in cui vasti strati della popolazione nera sono ancora costretti a vivere. Sei tracce in cui, insieme a Yesseh Furaha-Ali (sax tenore), Daniel Abraham Jr. (piano), Benjamin Jephta (contrabbasso) e Brian Richburg Jr. (batteria), disegna un jazz nero memore sia del lirismo di Roy Hargrove che dell'uso oculato dell'elettronica del miglior Christian Scott. Demetrius, talento prodigio in grado di guidare a soli 11 anni la sua prima formazione jazz, dimostra di avere idee musicali e politiche molto chiare e, nonostante abbia solo 24 anni come il suo alter ego Furaha-Ali, produce un disco maturo e convincente. Se Mc Bride aveva celebrato più le glorie che le sconfitte del movimento per i diritti civili citando Martin Luther King, Demetrius si affida ad alcuni estratti di Angela Davis e Mumia Abu-Jamaal (a cui dedica il brano “Mumia's guidance”) che quelle galere, reali o metaforiche che siano, conoscono molto bene mostrando così un approccio più radicale rispetto all'affermato collega. La musica, però, resta piacevole evitando quel legame non sempre fecondo tra protesta sociale e free jazz e testimonia della vitalità della scena “nera” del jazz statunitense.