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Montecarlo Jazz Festival 2019: luci e ombre nella serata del 22 novembre con Degibri e Hancock
Scritto da Adriano Ghirardo   
giovedì 28 novembre 2019
MONTECARLO - L'esclusiva location della Salle Garnier ha ospitato la quattordicesima edizione del Montecarlo Jazz Festival, rassegna sotto l’alto patrocinio del Principe Alberto II di Monaco. Se è vero che, col passare degli anni, la parola “jazz” ha assunto varie sfaccettature è scelta commerciale di numerose rassegne, compresa quella monegasca, di riservare spazi esigui ad una programmazione in linea con la tradizione afroamericana. La nostra decisione è stata, dunque, di privilegiare la serata del 22 novembre con in cartellone il quartetto di Eli Degibri e il decano Herbie Hancock. Degibri, accompagnato dai fidi Tom Oren al piano, Tamir Shmerling al contrabbasso ed Eviatar Slivnik alla batteria, ha presentato un mix di composizioni vecchie e nuove (una, dedicata al proprio manager, addirittura in prima assoluta) in cui ha dimostrato di saper unire controllo tecnico dello strumento e sensibilità. Era evidente l'interplay con i giovani (ma già maturi) colleghi e il divertimento nel rivisitare brani storici del suo repertorio a cui il notevole pianista (già vincitore della Thelonious Monk Competition) ha dato un tocco e una visione armonica interessanti. Degibri ha studiato piano classico in questi ultimi anni e ciò ha influito, ovviamente, sulla vena compositiva più recente. Ma la volontà di mescolare jazz e classica è stata la caratteristica meno convincente di una buona esibizione. Infatti la versione barocca in 5/4 di “Like someone in love” annunciata dal sassofonista israeliano ha finito per non rendere merito né allo standard di Jimmy Van Heusen né al genio di Eisenach. Nella seconda parte Hancock, Lionel Loueke, James Genus e Justin Tyson hanno riproposto lo stesso repertorio della data sanremese di tre settimane fa. Ma l'assenza della giovane e talentuosa flautista Elena Pinderhughes ha sottratto varietà al lato solistico del gruppo rendendo il risultato più monocorde. “Actual proof”, “Chameleon” e “Cantaloupe island” sono i tormentoni che il pubblico attende da un musicista che, da parecchi anni, ha tirato i remi in barca vivendo sulla propria gloriosa storia, collaborando con giovani di valore ma senza tentare nuove strade. In fondo l'uso del vocoder, le influenze africane dovute soprattutto allo stile etnico di Loueke e altre reminiscenze degli anni 70 risultano cose già sentite che non rendono merito ad un pianista fondamentale nello sviluppo dell'improvvisazione jazz moderna. Molti tendono a giustificare questa deriva commerciale con l'appagamento dovuto all'età e al successo conseguito ma ciò stona, ad esempio, con l'esperienza dell'amico Wayne Shorter che ha prodotto, negli anni 2000, alcuni dischi in grado di influenzare i futuri sviluppi del jazz moderno.

(5 fotografie di Umberto Germinale della Phocus Agency a pagina 124 della Galleria immagini)