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L'editoriale [numero 41]: "Ashley Kahn: quando la musica (jazz) è il rumore dell'anima"
Scritto da Marco Scolesi   
venerdì 27 ottobre 2017
Sul Mellophonium.it uno dei filoni principali di "indagine" è il rapporto tra il jazz e la scrittura, sia in ambito giornalistico che nella narrativa (con sconfinamenti nella poesia, che già di per sé ha il ritmo della musica). E in questo editoriale di ottobre ritorno sul quel terreno, per un nuovo tassello di un mosaico che si sta componenendo e che avrà, in futuro, ancora molti pezzi da inserire. Questa volta lo spunto arriva dalla casa editrice Il Saggiatore, che alla musica dedica moltissimo spazio con frequenti pubblicazioni sul tema (nella collana "La Cultura"). Le ultime che segnalo sono, in ambito classico, "Allo specchio" del compositore Arvo Part (conversazioni con Enzo Restagno) e "I quartetti per archi di Mozart" di Sandro Cappelletto e, in ambito jazz, "La musica siamo noi" di Paolo Fresu e soprattutto "Il rumore dell'anima", saggi di jazz, rock e blues di Ashley Kahn (classe 1960, nato nel Bronx a New York, scrittore, giornalista, dj radiofonico, produttore e tour manager, già autore per Il Saggiatore di "A love suprime-Storia del capolavoro di John Coltrane", sua anche la fondamentale storia dell'etichetta Impulse, che di Coltrane ha pubblicato tutti gli album dell'ultimo periodo). Quattro sezioni del bellissimo volume, che poi è una raccolta di scritti di una carriera passata ad analizzare la musica, sono dedicate al soul, al rock e al blues, le altre quattro al jazz (la terza, la quarta, e poi la settima e l'ottava). Praticamente metà del corposo lavoro (550 pagine) è dedicata alla musica afro-americana. Nelle quattro sezioni riservate al jazz troviamo articoli su Nina Simone, Thelonious Monk Quartet e John Coltrane at Carnegie Hall, Billie Holiday "The ultimate collection", Sarah Vaughan "Gold", Sonny Rollins "Live in ’65 e ’68", Art Tatum "Centennial celebration", Lester Young "Centennial celebration", Jimmy Smith "Live ’69", Dave Brubeck "Jazz at Oberlin", Stan Getz "The 1953-1954 Clef-Norgran Studio Sessions", The definitive Thelonious Monk on Prestige and Riverside, The Quintet "Jazz at Massey Hall", Duke Ellington "The Ellington suites", Wayne Shorter "Face of the deep", Elvin Jones "L’elemento primario", "Dopo settant’anni il Village Vanguard è ancora il cuore del jazz", "A ottant’anni Roy Haynes picchia ancora duro", un'intervista a Keith Jarrett, "Perle di saggezza: intervista a Pharoah Sanders", Wes Montgomery "Boss guitar", "Side steps", "Weinstock’s Way: tre anni di John Coltrane con l’etichetta Prestige", "I venerdì con Rudy: Black pearls di John Coltrane", un'intervista a Archie Shepp su "Chasin’ the Trane", "A love supreme", Alice Coltrane e "Translinear light", ancora Alice Coltrane, "Offering: live at Temple University", "The definitive Miles Davis on Prestige", Bill Evans e Miles Davis, Miles Davis Quintet live in Europe 1967, Lenny White che parla di "Bitches brew", electric Miles, "Tutu" e "The Warner years, 1986-1991". Una bella passeggiata nella storia del jazz, raccontata con passione e dettagli da chi oggi è considerato uno dei migliori critici musicali. "La musica è una vocazione. È questo che piace dire ai musicisti, vero? Non sei tu a scegliere la musica: è la musica a scegliere te. Un altro cliché abusato - scrive Kahn -. I cliché hanno in sé una bella fetta di verità, altrimenti non sarebbero cliché. E, dunque, si tratta di un cliché vero per quanto attiene al sottoscritto e al giornalismo musicale. Mi innamorai della musica all’inizio degli anni Settanta e fu una vera e propria infatuazione. Provai a suonare la chitarra e restai frustrato, così smisi e continuai ad ascoltare musica e a leggere qualsiasi cosa trovassi al riguardo. Sviluppai la capacità di distinguere tra il buon giornalismo musicale e la mediocrità di certe cronache, avvertendo poi la vocazione di cimentarmi io stesso". E per chi tenta di fare questo mestiere Kahn è certamente un punto di riferimento. Perché Kahn si accosta alla musica da appassionato, da uno che ha ascoltato centinaia e centinaia di dischi, che ha frequentato e frequenta i musicisti. Una passione vera e, come spiega Kahn, nata a scuola:  "Ci provai per la prima volta nel 1976. Ero in seconda superiore e mi venne chiesto di realizzare un tema sulla poesia: saremmo stati liberi di scegliere e analizzare qualsiasi poesia moderna, persino un found poem. La mia scelta cadde su una canzone tratta dal nuovo album di Bob Dylan, Blood on the tracks, che avevo da poco ascoltato". Ed erano anni di grande fermento: "Negli anni Settanta, c’erano riviste che pubblicavano esempi di ottima scrittura, articoli, monografie e interviste che parlavano di musica a livello culturale e sociale e che riflettevano le varie sensibilità della controcultura post anni Sessanta. Non ce n’erano tante, ma a sufficienza per ispirare e guidare un giovane dilettante pieno di entusiasmo. Naturalmente, c’erano Rolling Stone e, quando riuscivo a trovarli, Creem, Crawdaddy e, talvolta, Circus. Non molte ma abbastanza per suscitare il mio interesse riguardo all’idea che le parole potessero scatenare e amplificare l’esperienza trascendente insita nella musica". Poi l'orizzonte cambiò: "Mi consentirono di aprire gli orecchi e di esplorare folk, blues e jazz e fu così che scoprii altri autori che avrebbero guidato il mio percorso, come Peter Guralnick, Nat Hentoff e Nick Tosches, che in qualche modo elevarono miti musicali come Jerry Lee Lewis a vette leggendarie attraverso un linguaggio da Bukowski o Burroughs". Così è partito tutto e oggi Kahn "riporta a casa" 40 anni di scritti in musica: "Nell’arco di quarant’anni, mi sono dedicato al giornalismo musicale più e più volte, anche mentre ero impegnato a seguire altri percorsi all’interno dell’arena del business musicale: produttore di concerti e festival, tour manager e produttore di programmi radiofonici e documentari. Ho anche provato a fare il docente universitario e ancora oggi tengo corsi su svariati geni e generi musicali, oltre che sul giornalismo musicale stesso. Non molto tempo fa, mi sono messo alla prova, cercando di distillare lo sviluppo della scrittura di questo genere in una serie di regole in grado di aiutare uno studente di giornalismo, quanto meno per fornirgli una minima spiegazione del procedimento attraverso cui il giornalista si occupa di un argomento musicale in maniera informata e illuminata. Però detesto le regole e, in effetti, nel corso degli anni ho scoperto che alcuni dei pezzi più memorabili e influenti da me letti non avevano minimamente seguito linee guida precise. Il risultato del mio esercizio fu una lista di ciò che, secondo le mie intenzioni, avrebbe dovuto far luce sul giornalismo musicale e ispirare una certa autocoscienza, e al contempo risultare divertente e scherzoso". E quindi Kahn illustra un decalogo con pregi e difetti del giornalismo musicale. Vale la pena di scoprirlo nel libro, anche se la regola aurea, sottolinea Kahn, è quella di Robert Christgau: "Una buona scrittura musicale prima di tutto è buona scrittura". E poi conclude la sua introduzione: "Vorrei poter dire che il breve elaborato scritto sulla canzone di Bob Dylan fu la dimostrazione precoce di un talento pronto a sbocciare. Diciamo semplicemente che fu un primo tentativo rispettabile. Quel lavoro, nel 1976, mi fece ottenere un 7+ e, a essere onesti, passando in rassegna questa antologia e riflettendo su tutti i pezzi che da allora ho scritto, credo che ancora oggi mi darei lo stesso voto di allora. Ottenere un 7+ è ammirevole. Mi lascia intendere che, dopo quarant’anni, io stia iniziando a essere promettente e che ci sia ancora un margine di miglioramento. Forse, prima o poi, ce la farò". Per noi, mister Kahn, il voto è 10 e lode.