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Intervistando: Fernanda Pivano al Tenco 1997, da Cesare Pavese a Fabrizio De André
Scritto da Marco Scolesi   
sabato 29 aprile 2017
SANREMO - Per tutti era semplicemente la "Nanda". Fernanda Pivano (1917-2009), però, è stata una delle principali esponenti della letteratura italiana del Novecento. Grazie a lei, intellettuale pacifista e traduttrice, oggi possiamo leggere diversi capolavori, soprattutto di scrittori americani (da Fitzgerald a Faulkner, da Miller a Easton Ellis, da Hemingway a Karouac). Ho avuto il privilegio di incontrarla nel 1997, a Sanremo, alla Rassegna della Canzone d'Autore organizzata dal Club Tenco. La Pivano intervenne per consegnare un premio all'amico Fabrizio De André (era la Targa Tenco per il miglior disco dell'anno "Anime salve", l'ultimo del cantautore genovese). L’incontro avvenne a fine serata, dopo il concerto di Faber, in un soppalco del Teatro Ariston, all’ingresso dei camerini, seduti ad un tavolino. La "Nanda", che quest'anno verrà celebrata nella serata "Complice la musica-Musiche da New York" (Teatro Ariston di Sanremo, domenica 7 maggio, con Patti Smith, a cura del Tenco), era in compagnia di una sua amica scrittrice, in un momento di relax. L’intervista, una sorta di conversazione informale piuttosto lunga, che qui è stata "montata" e tagliata per esigenze editoriali, si svolse dopo aver ordinato alcuni toast, però senza formaggio su richiesta della "Nanda".

Una bella emozione premiare De André?
"Fabrizio è un caro amico e poi siamo entrambi genovesi. Per me è il più grande poeta italiano, non c'è niente da fare. Non certo Mario Luzi, che invece pretende il Premio Nobel. Pensi che le sue poesie, quelle di Piero e Marinella, lui le ha scritte due anni prima di Bob Dylan e questo significa che è stato Fabrizio ad iniziare con questo genere, tra il confidenziale e la denuncia. E' un grande personaggio. Insieme abbiamo lavorato ai versi dell'Antologia di Spoon River, che con il suo disco Non al denaro non all'amore né al cielo ha migliorato. Quelli di Lee Masters erano solo degli appunti, mentre De André ne fece dei ritratti fantastici".

Prima ha citato Bob Dylan. Cosa ne pensa?
"Seconde me dovrebbero dargli il Premio Nobel per la letteratura (assegnazione che poi è avvenuta l'anno scorso, ndr). Lo ha sfiorato l'anno che invece decisero di darlo a Toni Morrison per motivi razziali, poiché lei è di colore. Sono contenta invece che a Stoccolma abbiano scelto di premiare l'opera di Dario Fo. Avrebbero dovuto darglielo dieci anni fa il Nobel, ma alcuni papaveri della cosiddetta cultura italiana protestarono".

Ora vorrei parlare di libri. Partirei da Cesare Pavese...
"Pavese era il mio professore al Liceo D'Azeglio a Torino, in prima liceo. Poi fu portato al confino, in Calabria. Quando tornò io ero già all'Università e gli chiesi una tesi anche se ero solo al primo anno. Ero una secchiona. L'avevo chiesta su Shelley, in letteratura inglese, perché mio nonno era inglese, fondatore della Berley School. Pavese mi disse: perché non la chiede in letteratura americana? E io gli dissi: che differenza c'è? Mi fregai per sempre. La stessa sera mi portò in portineria Addio alle armi di Ernest Hemingway, le Foglie d'erba di walt Whitman, un'autobiografia di Sherwood Anderson e l'antologia di Lee Masters. Mi innamorai di quei libri e così cambiò per sempre la mia vita. La laurea arrivò nel 1941 con una tesi su Moby Dick di Melville".

Poi arrivarono le prime traduzioni, l'antologia di Lee Masters uscì nel 1943...
"Sì, fu un periodo bellissimo. Lui era la mia guida, mi dava consigli, andavamo insieme in bicicletta in corso Moncalieri, mi faceva leggere le poesie. Le sue della raccolta Lavorare stanca, ma anche quelle di Montale, Quasimodo e Ungaretti. Pavese non è stato solo un grande scrittore ma anche un importante operatore culturale. Era innamorato del suo lavoro e ha aiutato tanta gente, anche la sottoscritta alle prese con le prime traduzioni americane. Tra di noi però non c'è mai stato nulla di sentimentale. La nostra era un'amicizia profonda, intellettuale".

Lasciava trasparire i suoi tormenti esistenziali?

"In quel periodo aveva il problema di Elio Vittorini che cercava di introdursi nella casa editrice di Einaudi di cui lui, dopo la morte di Ginzburg, era diventato direttore. Mi faceva leggere le lettere di Vittorini. Certamente era un tipo inquieto".

Dopo alcuni classici americani lei si dedicò ai poeti della Beat Generation. Ad esempio Allen Ginsberg...
"Era un grandissimo catalizzatore. Lui era riuscito a tenere insieme questi autori che in realtà non erano poi così simili tra loro. Era proprio la sua forza organizzativa che riusciva a tenerli uniti. A farli incontrare, a conservare le amicizie. E anche a dare una forma teorica a quelli che erano i pensieri di allora”.

E Jack Kerouac?
"Un genio puro, forse il genio più grande di tutti, intendo del gruppo della Beat Generation. Lui inventò tutto e Ginsberg teorizzò il movimento".

A che punto sono i suoi progetti?
"Sto scrivendo un'autobiografia però non mi danno il tempo, mi portano sempre in giro per incontri o conferenze. Per ora sono a 1.400 pagine e sono soltanto al 1979. Non so se uscirà mai, io però devo scriverla per togliermi questi fantasmi dalla testa".

(questa intervista, rimasta inedita per molti anni, fu inizialmente pensata per la fanzine "Zozzo", ideata dal sottoscritto insieme a Fabio Bertini ma poi mai uscita e rimasta un progetto in bozze)